Le divergenti concezioni delle autonomie speciali
Le autonomie speciali in Italia prendono le mosse da storie distinte Regione per Regione e da esigenze molto diverse. Considerarle come un mondo unico, uniforme, è quanto di più sbagliato. Lo è persino dal punto di vista istituzionale, se si fa attenzione a come si sono evolute le loro competenze nel corso del tempo, e lo è soprattutto dal punto di vista della loro ragion d’essere e del loro effettivo modo di operare.
Prendiamo da un lato, per esemplificare il ragionamento, il Trentino-Alto Adige e dall’altro la Sicilia. L’autonomia dell’Alto Adige nasce dalle controversie post-belliche: era la modalità più saggia ed efficace per garantirne sia l’appartenenza all’Italia sia il bisogno di autonomia territoriale, intesa come forma di autogoverno. Lo stesso, sia pure con mutate caratteristiche etniche, vale per l’autonomia del Trentino. Comuni vicende storiche, comuni vocazioni all’autogoverno, comuni dotazioni di quel capitale sociale, istituzionale e comunitario, essenziale per un concreto, responsabile e fruttuoso esercizio di autonomia materiale, e non solo giuridica.
Per la Sicilia la storia è diversa e risale alla delicata situazione che si era creata prima e dopo l’Unità d’Italia. Situazione che innescò la decisa richiesta di un intervento risarcitorio, di una compensazione per i «danni» subiti, proprio attraverso il processo di unificazione nazionale. Senza entrare nel merito delle complesse questioni storiche e politiche che hanno generato e accompagnato la vicenda, qui è importante sottolineare che lo Statuto di autonomia della Sicilia, il più ampio e dotato dei regimi speciali, almeno sul piano potenziale, è fondato sulla rivendicazione di ampie competenze di autogoverno non sostenute solo dai gettiti fiscali della ricchezza prodotta in Regione, ma anche da una quota di risorse aggiuntive commisurata all’entità dei danni subiti dall’isola dopo l’unificazione.
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